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La stagione non s’era ancora infuocata e io già grondavo sudore da fermo. Nudo e supino sul divano di vimini, lasciavo che i liquidi defluissero liberamente, filtrati dalla graticola di fibre vegetali, fino a gocciolare lentamente sul pavimento. Stillavo! E mentre, guardavo le mosche, le circonvoluzioni loro, le rotte ardite, le evoluzioni aeree; una di esse, in particolare, dopo aver compiuto un goffo giro della morte, s’era posata, appiccicaticcia, sul bordo di un quadro appeso alla parete che mi stava di fronte. Opera da mercatino rionale, chissà chi l’aveva acquistata a suo tempo – mio padre, mio nonno? – ad ogni modo rappresentava un Cristo morto e probabilmente appena deposto dalla croce, accerchiato da una nutrita compagine di santi e madonne lagrimevoli. Mi venne il lampo di genio! Stravaccato e immoto, tranne che per un braccio, afferrai il mio smartphone nuovissimo, donde l’avevo riposto per terra, con la punta delle umide dita, poi acquisii l’icona, indi scattai un selfie, e infine posi entrambe le immagini a confronto in un collage. Pubblicai immediatamente sul social, titolo del post: “faccio pietà!” Arrivarono presto i primi “like”. Alla gente piace quando faccio ridere. A me a dire il vero non piace, ma non conosco altri modi per attirare l’attenzione.

Pranzai, quindi mi disposi alla sonnolenta digestione, di nuovo sui vimini. Cercai le mosche, ma erano sparite. Ragionai, pensando che sarebbero certamente riapparse, per insidiare le mie palpebre, non appena le avessi chiuse. Prima di abbandonare i vivi, udii tuonare lontano. E niente più. Quando rinvenni, il sudore aveva formato uno strato gelatinoso sopra la pelle del mio enorme corpo. Mi alzai per avvicinarmi alla finestra e vidi il mare sereno, sentii la quiete gorgogliare nel lento sciabordio delle onde, e il distante ronzio monotono di un motociclo di bassa cilindrata diretto verso l’ultimo orizzonte, là c’erano nuvole nere sulle cime dei monti. Pensai a una nuotata, mi avrebbe giovato. Mi sento sempre più agile, celato tra i flutti. Ma ho digestioni lente, per cui mi gettai nuovamente sul divanetto e riattivai la connessione dati. Tra i commenti, un amico chiedeva informazioni sullo scenario ritratto dietro le sacre figure principali: incorniciata da sfumature trascoloranti, dal terragno marrone alle nebbie cerulee dell’orizzonte, una corona collinare allargava il suo abbraccio a uno specchio d’acqua; spuntava qua e là qualche alberello poco fronduto, in rilievo sul cielo brumoso. Nel contesto goliardico, la domanda del mio amico risultava fuori luogo. Ad ogni modo gli risposi che probabilmente doveva trattarsi d’un paesaggio immaginario, ma che in effetti non ne sapevo nulla. Lui invece ribatté subito di conoscere il luogo, attestandolo nella nostra provincia. Avrebbe potuto dirmelo prima, senza fare troppo il misterioso, portandola per le lunghe. Così mi scrisse:
“A neanche una quarantina di chilometri verso ovest, si trova. C’è una strana costruzione però, in quella zona, a differenza della tua immagine; si trova su una collina, una specie di torre a tre livelli, si vede fin dagli scogli”, precisava “Ma per il resto il luogo è lo stesso preciso di quello del tuo quadro.”
Guardai l’immagine sullo smartphone; sui dipinti colli, non alcun tipo di struttura. L’amico insisté e gli promisi di informarmi.
Era l’occasione buona per chiedere aiuto a Melusina, che ha fatto Scuola d’Arte. L’ho frequentata per un certo tempo, più come amico, o “confessore”, o “segretario” che si voglia dire, che altro. In ogni caso, sempre nel contesto di comitive più ampie. Poi, un bel giorno, la convinsi a uscire per un gelato, un’uscita in due. Forse fu perché in quell’occasione mangiai anche il suo, o magari perché non rimase contenta quando alzandomi spostai il tavolino col mio culone e le rovesciai i bicchieri d’acqua sulla gonna, fatto sta che da allora non si è fatta più sentire. Non è veramente carina, ma per come sto messo devo pur accontentarmi. Il fatto è che sono troppo grasso, c’è poco da fare. Me lo riconosco da solo. Non riesco proprio a fare diete. Ad ogni modo, non mi dilungo oltre sulle mie beghe affettive, le inviai una foto del mio quadro, spiegai i fatti, del resto poco interessanti, e mi distesi nuovamente sul divano di vimini, pensando alla possibilità di andare a fare una bella nuotata, magari all’imbrunire. Sono un buon nuotatore, malgrado la mole. Lo so che non si direbbe. Lei mi rispose molto tardi, poco prima che andassi a letto:
“Chiaramente è una copia, fatta pure male. Hai in casa quella robaccia? Ho visto cos’hai pubblicato sul social, potevi evitartela questa. In ogni caso, non è una pietà ma un “Compianto del cristo morto”, Perugino, olio su tavola, fine ‘400. Al di là della sgraziata tecnica generale, il maldestro copista ha completamente glissato sugli edifici ritratti dal Perugino. Manca la città fortificata, l’eremo sul colle, le torri. Mi sa tanto che si è voluto evitare il lavoro, magari riconoscendosi incapace. Non è che lo hai fatto tu, il quadro?”
Le spiegai garbatamente che purtroppo non sono mai stato portato per il disegno. E le dissi di nuovo del mio amico, che aveva riconosciuto nel dipinto un tratto della nostra costa. Melusina mi rispose che non di mare ma di lago si trattava, giacché il Perugino si era ispirato al circondario del lontano Trasimeno. Così concluse il dialogo inviandomi un’immagine del “Compianto” originario. A me sembrò del tutto simile alla copia, se devo essere sincero. Ma non sono un esperto. D’altro canto era vero che nel mio quadro non vi fosse traccia di città fortificata, né di torri, etc, etc. Una strana incongruenza! L’indomani mattina, sul presto, con la mia utilitaria mi avviai per la litoranea, verso Ovest. Lungo la strada, dai bassi arenili, in stretti tornanti, il percorso comincia d’un tratto a inerpicarsi sulla roccia, che diviene sempre più scoscesa e a strapiombo sul mare. Dopo tre quarti d’ora circa di viaggio fermai l’auto su una piazzola. Non fu neanche necessario chiedere indicazioni, riconobbi il luogo. Confrontai con il dipinto del Perugino: al posto della città fortificata ce n’era una composta di scatolette di cemento, e invece delle torri sorgevano piccoli alberghetti, ma per il resto le affinità erano stupefacenti. Infatti, come mi aveva detto l’amico, ben visibile sul dorso di un rialzo collinare, c’era una torre in tre stadi, assolutamente identica a quella uscita fuori dal pennello del Perugino. Perlomeno così pareva da lontano. C’erano delle differenze, in effetti, ma ne parlerò più avanti. Comunque, sin da subito, cominciai a ricredermi, pensando più a una chiesa, o un eremo, che a una torre. Mi avventurai nella brulla campagna, tipica del meridione italiano. Scarpinai per un’oretta e con fatica giunsi, finalmente. Sono davvero troppo grosso. Vorrei essere più leggero. Tento ora una descrizione sommaria della struttura: la base dell’edificio è un cubo circondato da un loggiato tripartito che circonda tutta la struttura, al di sopra s’erge un tozzo cilindro illeggiadrito da lesene verticali, la base circolare è di poco non tangente al perimetro merlato del tetto quadrangolare, infine sul terzo livello, merlato anch’esso, si eleva un cilindro più stretto. Rispetto al dipinto, la struttura soggetta all’esperienza dal vivo, si intuisce immediatamente in scala ridotta, inoltre ad un primo sguardo già mi parve chiaro che non c’erano porte d’ingresso, non si rilevavano feritoie, non finestre, né alla sommità del tutto la ieratica cuspide piramidale che nel dipinto del Perugino mi aveva lasciato pensare a un edificio religioso. Ipotesi, del resto, tutte ipotesi. La fabbrica, all’esterno, era assolutamente spoglia di simboli e fregi. Improvvisamente mi accorsi che due cani neri ringhiavano a breve distanza. Ho terrore dei cani, da quando mi azzannarono che ero ancora un pargolo ottimista. Li vidi balzare oltre un basso muretto a secco e lanciarsi con ferocia verso me. Rimasi istupidito e immobile. Con tutto quel peso addosso, che potevo fare del resto? Chiusi gli occhi, poiché non volevo vederli mentre mi facevano a brani.

E fu allora che udii nuovamente tuonare e subito dopo un suono di flauto. Uno due, tre serie di note veloci, e una breve pausa, poi di nuovo uno, due, tre serie di note. Aprii gli occhi e vidi i cani, stesi pacificamente ai piedi di un barbuto pastore. Che fosse un pastore, in realtà, lo intuii. Da come era vestito, per largo uso di pelli. Ma era presunzione. Le pecore alle sue spalle rappresentavano un indice più ragionevole. Non doveva avere troppi anni in più di me:
“Che cerchi qui?”, mi chiese.
Feci cenno verso l’edificio e quello scoppiò a ridere:
“Sono anni che nessuno viene più a chieder nulla. Non ci sono porte. Non si può entrare. Tornatene a casa, uomo di città.”
“È una chiesa?”, domandai.
“Una chiesa? E a cosa ti serve? Se fosse possibile usare i templi come cabine telefoniche, per avviare una comunicazione sarebbe necessario innanzitutto conoscere il numero dell’interlocutore e pregare equivarrebbe a esprimere richieste nel modo opportuno. Non per mero ossequio, bada bene, ma avendo cura delle parole utili all’uopo. Al bancone del bar chiederesti mai la lucidatura delle scarpe? Parole alate si devono scoccare, così si diceva una volta.”
I cani erano di nuovo nervosi, così pensai di andarmene in fretta, non sia mai che quell’energumeno troppo forbito avesse d’un tratto a decidere di mandarmeli contro.

Camminavo verso imo, nel frattempo scrivevo a Melusina per informarla che la torre del Perugino esisteva veramente, e che il paesaggio nella sua interezza presentava affinità. Mentre aspettavo la risposta tornai alla copia del mio quadro, l’immagine in galleria, sempre camminando. Con l’ingrandimento constatai ancora una volta che sul colle, va bene, forse non c’era la torre, ma in effetti qualcosa era stato pur dipinto. Strano non me ne fossi accorto prima. Prestando bene attenzione si notava un gruppo di uomini intenti all’edificazione. Piccoli esserini con cazzuola e impasto, muratori, tagliatori di pietra e così via. Strano, davvero strano che non me ne fossi accorto prima. Con uno zoom maggiore si coglievano persino i tratti degli occhi, erano rivolti in alto verso l’osservatore. Non mi intendo di arte, ma la trova mi sembrò interessante. Melusina frattanto mi aveva chiesto di che torre parlassi e mi resi conto di quanto ero stato bestia a non fotografarla. Le mandai uno screenshot dell’ingrandimento dal Perugino originale, cioè dalla foto che mi aveva precedentemente lei stessa.
“Non è una torre quella. Un eremo, forse.”, mi scrisse “Anzi, probabilmente non esiste proprio una struttura del genere. Il Perugino si sarà ispirato a una qualche badia del circondario lacustre, una chiesa, boh?!, poi avrà aggiunto qualcosa di suo, per rendere il senso della quadratura del cerchio, forse avrà voluto evocare il Santo Sepolcro di Gerusalemme, e così via. Te lo spiego davanti un gelato, se prometti di lasciarmelo mangiare questa volta. Intanto mandami una foto di quel che hai visto stamattina?”
Il gelato era il risultato! Il resto non conta. E le inviai in allegato il focus sui miei edificatori della copia. Vedevo già il mare dorato, leggermente increspato. Lei, repentinamente, mi inoltrò per risposta un emoticon, una faccina stupita. Se non altro avevo attirato finalmente la sua attenzione (senza contare la prospettiva del gelato). Decisi di farmi coraggio, e tornare indietro alla badia, o sepolcro che fosse. Arrivai sfiancato, sudavo come… ah, non so come sudassi, non so fare paragoni, ma sudavo tanto, questo è certo! Ansimando procedevo di nuovo verso l’altro, nel contempo comparavo il reale con l’immagine mia, zoomando qua e là: in effetti gli edificatori sembravano parecchio indaffarati; ingrandii ancora e spuntò tra le erbacce il perimetro della base cubica, già in parte eretto. A ben vedere attorno alla scena dell’edificazione, alcuni uomini risalivano da valle portando scale, forse per le impalcature. Bloccai lo schermo e avviai la perizia dal vero; più volte girai attorno alla fabbrica muraria, cercando pertugi utili al sondaggio interno, scostavo rampicanti e arbusti, per capire se mai fossero state murate porte; mai reperii nulla che segnalasse antichi usci in disuso. Ogni tanto brontolavano i monti. Proseguii per un’altra mezz’ora. Tuonò nuovamente, forte e vicino questa volta. Ma non c’erano fulmini. Non mi preoccupai dapprima. Poi improvvisamente un tuono fortissimo, sconquassante, da far rintronare le orecchie. Tremò la terra e i sassi parvero sollevarsi sull’erba incolta, arsa e riarsa, stormirono le frasche secche e i rami più grossi ondeggiarono, mentre l’eco rotolante fuggiva verso sud. Fuggirono i corvi, si ammutolirono gli insetti e si fece silenzio. Ero barcollante, ma cercavo di resistere in piedi, mi trattenevo dal gridare. Per un lasso di tempo non definibile, come l’infinito che simula l’eternità, non vi fu alito di vento, non uno strusciar di fronde, niente, non si sentiva il mare, né le rondini. Una sonnolenza violacea mi afferrò le palpebre. Anzi, ad occhi chiusi, probabilmente, era tanta la luce, che riuscivo a scorger forme da dietro la tendina di carne. Poi in rapida sequenza il suono del flauto, una risata femminile e il ringhiare dei cani. I cani!!! Spalancai gli occhi, accaldato e terrorizzato. Mi guardai attorno, in cerca del pastore, ma ero solo, neanche i cani c’erano. Ma sentivo la loro fame alitante. Scappai verso il basso, a valle, piuttosto velocemente, senza mai voltarmi a guardare. Sentivo capitomboli di pietre che ruzzolavano, furia di inseguitori agguerriti che travolgevano ostacoli effimeri. Erano ritornati i suoni, ma non mi consolavo per nulla. Eppure, qualcosa infine mi riscosse dai timori, per quanto fondati fossero. Ancora niente foto. E il gelato? Che le avrei mai raccontato? Ero giunto quasi davanti alla macchina quando decisi di riconsiderare per l’ennesima volta le mie decisioni, partendo da uno sguardo alla foto in galleria, quella del particolare dalla mia copia. Feci un salto indietro di almeno un metro, per la sorpresa. Ora il primo livello cubico era quasi completo, si vedevano scale e impalcature poggiate sui muri, ma dall’interno. Alcuni operai erano ritratti mentre lavoravano alle merlature e fuori non restava più nessuno, giusto qualche attrezzo dimenticato e una scala sul terreno. Non potevo non essermene accorto nelle visioni precedenti. Tutto ciò mi risultò assurdo, ma sono un uomo che ha fiducia nelle proprie capacità cognitive, anche se non lo voglio dare a vedere troppo. Pensai quindi a una funzione dell’AI del mio nuovo smartphone. Mi voltai al colle, con la voglia di arrabbiarmi. Per la terza volta tornai sui miei passi e mi rimisi sull’erta. Cercai i cani, in giro, ma vidi uno spesso strato di nubi che si approssimava velocemente alla costa dal mare, veniva da est, dalle mie zone. In breve cominciò a tuonare forte anche da lì. Però c’erano fulmini su quel fronte in approssimazione. Il tempo non prometteva un buon esito del pomeriggio. Passò un quarto d’ora, forse. Forse di più. E poi piovve. Trovai riparo sotto un albero, ma erano troppo rade le fronde. E la pioggia troppo forte. Grandinò, a un certo punto. E il vento si fece vorticoso. In tutto quel frastuono ambientale fu un miracolo se sentii il ringhio furioso dei cani neri. Mi guardai attorno, gridai, inutilmente. Che fare?, diceva Lenin. Mi mossi dall’albero, per quel che mi era servito. Vagai fradicio, di qua e di là, per un po’. Sentivo l’abbaiare sempre più vicino. Poi mi ricordai della scala che gli edificatori avevano dimenticato fuori. E la trovai. Riuscii ad avvicinarla al muro perimetrale e la alzai. Arrivava giusto alle merlature. In fretta, poco prima che giungessero le belve, montai su e mi salvai. Non vidi mai i cani, ma li sentivo certamente; non si stancarono di abbaiare per tutta la durata del temporale e ancora oltre. Avevo fame, ma non potevo scendere. I demoni mi aspettavano giù. Ero immobile e inzuppato, di tanto in tanto giravo attorno alla torre cilindrica ma, come avevo già immaginato correttamente, anche al secondo livello non c’era modo di entrare. Sul far della sera i cani si zittirono e io finalmente mi resi conto di quanto fossi stato stupido: non senza sforzi enormi, tirai su la scala e superai anche il primo cilindro murario. Finalmente in cima, a capo chino, sull’orlo del secondo, cercai di capire, d’entrare nei segreti recessi dell’edificio, di svelare l’arcano. Sforzi inutili, in principio. Rilevai solamente le linee di alcuni fregi, e da ciò deducevo che la costruzione senza porte era stata costruita dall’interno. Ma il probabile non bastava a sedare la mia curiosità. Tutto restava oscuro, materialmente. Decisi di aspettare. Di aspettare che accadesse qualcosa. E sorse la luna, quasi piena. I raggi delicati penetrarono l’edificio e così potei scorgere qualcosa di scintillante sul fondo. Forse uno specchio d’acqua. Ormai ero esausto, anche di pensare, di ragionare, di cercare soluzioni soprattutto. Così come al solo ricordo, mi riesce difficile ora raccontare quei fatti. Ma ormai, forse non sarebbe buona educazione interrompermi. Sotto il velo della superficie equorea, o forse sopra, non saprei dirlo per quanto sembrava trasparente il sottile strato che separava il liquido dall’aria spessa, si muoveva uno sciame di forme dai riflessi azzurrognoli, lentamente ma incessantemente. Stetti un bel po’, con gli occhi fissi, senza batter ciglio, per il timore di perdere qualcosa di quel fenomeno che stava avvenendo. La luna fece il suo corso. In breve fu a picco sulla piscina interna. E vidi i pesci. Si fermarono tutti allo stesso tempo, illuminati dall’amore di quella Madre celeste, e mi fissarono coi loro occhioni enormi. Mi sarei senz’altro tuffato, se Melusina dabbasso non mi avesse chiamato.

 

Gaetano M. Celestre

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