Racconti

Il diavolo non piscia

 

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Riassunto preventivo per chi vuole certamente leggere, ma poco:
“È notte, nevica. Le vie sono ghiacciate. Due distinti signori escono dall’osteria. Inebriati dalle essenze alcoliche, per pararsi il rischio di solitari scivoloni, decidono di avviarsi assieme sul sentiero del ritorno. Mano a mano che procedono, tra convenevoli e presentazioni, scoprono di avere molto in comune, oltre la passione per il vino. Infine, giunti sani e salvi a casa – la medesima abitazione di residenza per entrambi – concludono il percorso con abbracci e lacrime di felicità, riconoscendosi per padre e figlio.”

Il diavolo non piscia

Mi hanno raccontato una storiella gustosa giusto ier sera, forse è persino di un qualche interesse ludico più che generale, per quanto, in ogni caso, già mentre mi adopero a trascriverla, mi pare opportuno suggerire al lettore un atteggiamento di sospetto e scetticismo. Occorre saper affrontare il reale, la vita, con un certo distacco, premettendo sommaria incredulità all’interpretazione sempre relativa di ogni fenomeno. Ebbene, ai fatti: a quanto pare – e così in effetti precisamente mi hanno riferito – nei giorni scorsi – ossia nel pieno dell’improvviso abbassamento delle temperature per come ci ha colti proprio quando sul lungofiume improvvidamente lodavamo il tepore fuori stagione – all’ora tarda, due signori distinti uscendo dall’osteria sono scivolati l’uno addosso all’altro. Ciò ovviamente a causa del marciapiede reso scivoloso dalla gelata notturna. Dopo una prima confusa schermaglia verbale, forse in parte indotta dallo spirito acceso ai due dai furori alcolici, per fortuna – come quando piove in agosto, anche con violenza, ma poi subito ritorna il bel tempo – in grazia della bonomia, o meglio del buonumore evidentemente connaturato ai due figuri (chiunque saprà constatarlo da sé nel corso della lettura), s’è felicemente transitati, e prestamente e in reciprocità, allo scambio dei signorili convenevoli. Mi è stata riportata buona parte del dialogo:
“Signore, lei mi pare , nei modi e nell’aspetto, non degno di una polemica che io ritengo in assoluto non necessaria.”, aveva esordito uno “Così, perlomeno a me sembra!”
“Ne convengo senza dubbio, pur anche nei suoi riguardi, certo, certamente. Sempre è benvenuta la critica, ma inutile è la polemica nella maggior parte dei casi. Al dunque, abbandoniamo congiuntamente il cipiglio amaro e disponiamoci alla buona creanza.”, così gli aveva risposto l’altro, tutto compito, mentre si aggiustava il bavero del giaccone per ripararsi dai freddi aliti.
“Oh, che buone e belle parole, signore; le rendono senz’altro onore, mi creda. Dunque che il fondo ghiacciato non si frapponga oltre ad una possibile buona amicizia.”
“Mi presento subito: cavalier Arimondi, per servirla!”
“Piacere, immenso piacere mio! Arimondi, ha detto?”
“Eh già; forse lei mi conosce? Sono molto famoso, sa, in tutto il contado?! Encomio personale del viceré e riconoscimento ricevuto per i miei servigi di…”
“Di?”
“Oddio, non lo ricordo più! Ma lasciamo i discorsi seri, prima che divengano seriosi. Sa cosa conta davvero nella vita? Agire onestamente, il volto che può specchiarsi, e bla bla bla, e etc, etc, come si dice comunemente. Vede, badi badi, mi rado ogni mattina… e tutti mi riconoscono. Lei, per esempio, guardi un po’ se mi…”
“Non so dirle, qui è troppo buio. Non si vede bene. Sembrano cose, e invece sono altre. Anche alla luce diurna, del resto, non accade ugualmente? Vediamo un tavolo, un muro, un gatto, e invece le lenti sovrapposte ingrandiscono immagini di moltitudini molecolari. Cosa non vediamo in profondità?! Cosa è vero sotto il sole? Ma, senta un po’ che stramberia, lei porta il mio cognome!”
“Ma davvero? Magari siamo pure parenti…”
“Oh no, il viceré non m’ha mai premiato, glielo giuro, per alcunché! E dire che sono un poeta coi fiocchi, ho scritto una lirica stamane, nello stile del recanatese!”
“Mi dica, mi interessa!”, ma era formula di circostanza, essendo il cavaliere uomo di pratica.
“Sulla sostanza informe che è eterna e solo i nostri sforzi d’artigiani riescono a render visibile nelle forme infinite. Parvenze!”
“Gentile signore, fare la vostra conoscenza mi onora. Siete uomo di valore e di pensiero, già lo vedo! Avete avuto riconoscimento pubblico per coteste qualità?”
“Mai!”
“Ottimo, ottimo!, siete dunque destinato alla gloria eterna, fidatevi! Eternità!”
“Informe…”
E così furono avviate le procedure conoscitive, dall’una e dall’altra parte. L’inevitabile progresso nella dimestichezza, l’allargamento della confidenza nei rapporti, li aveva in pochi istanti introdotti a una considerazione congiunta delle contingenze, nello spazio e nel tempo a loro attuali: cioè, sostando infreddoliti al quanto sotto il cielo di Gennaio, malgrado non mancasse di avvinghiarli con le ampie braccia il sempre lieto padre Bacco, e facendosi sempre più tarda l’ora, e già potendosi immaginare che nel prosieguo ciò dovesse comportare necessariamente l’irrigidirsi ulteriore delle temperature, e del resto avendo da un pezzo cominciato candidamente a fioccare, ai due si presentò l’opportunità di stinger alleanza per un felice ritorno a casa. Entrambi guardavano verso l’alto, a interrogare il puntiglioso biancore:
“Io mi azzarderei a ipotizzare che non siano stelle cadenti!”, dubbiosamente propose uno.
“Nevica!”, laconicamente ammise l’altro, sconsolato.
“Senta, caro signore. Qui il rischio è di spaccarsi le ossa, magari la faccia, per uno scivolone.”
“Signore, se lei vuole ora adombrare una mia condizione di instabilità, io…”
“Oh, no no, assolutamente. Me ne guardo bene, per il rispetto di cui lei è degno e s’onora. Non mi permetterei mai. Accuso il ghiaccio, signore mio, accuso la neve che si pose in strati, neve su neve, che formò questo spesso tappeto, talvolta insidiosamente trasparente…”
“Già già, be’ questo può essere.”, convenne l’amico.
“Ora, dico io, se si desse il caso di poter fare almeno un pezzo di strada insieme…”
“E be’, se si desse… le confesserei, signore, che non mi dispiacerebbe affatto. Uno potrebbe sorreggersi nell’altro, e viceversa.”
“Nel caso si scivolasse per il ghiaccio?”
“Si capisce!”
“Andare dunque assieme sarebbe certamente gran cosa…”
“Oh, ma ciò sarebbe impossibile, cosa ben triste, se per esempio io stessi da una parte e lei dall’altra di questa nostra nobile città.”
“Lei dove abita, gentile amico?”
“Non è lontano, non troppo perlomeno, ad un paio di miglia appena, precisamente in via della Luna!”
“Via della Luna?!, ma guardi un po’ la coincidenza…”
Quello ci pensò un po’ su e poi chiosò:
“Magari ha casa proprio nel circondario, non mi dica?!”
L’altro sorrise, allargò le braccia e con un sospiro rassicurante si espresse:
“Mi lasci dire, signore caro, che tutto è finalmente risolto; questo è un vero piacere per me, poiché potremo in tutta sicurezza ritornare a casa sani, salvi e in compagnia.”

Dunque i due si avviarono lungo la stretta via che dall’osteria si diparte, attraversarono un paio di lunghi porticati, vicoli, e angusti passaggi, sbucando nella piazza larga, proprio difronte alla torre e all’orologio civico. Le scivolose pietre vetuste influirono non poco a concimare di confidenza la bella amicizia che si andò stringendo via via, tra abbracci, scivoloni, gentilezze e cozzi. E dire che mancò poco davvero che i due ad ogni passo non ruzzolassero per terra con grave danno. La neve nel frattempo, serrata e sempre più fitta, insieme ai gelidi turbini improvvisi dell’aria, riduceva visibilità e coscienza; forse fu questo che confuse e disorientò gli amici, i quali senza neanche volerlo si ritrovarono all’improvviso fuori dalle mura cittadine. Il disappunto non li sconvolse però. V’era del resto un’insorgente incombenza. Un lampione illuminava una porzione di neve ingiallita dalla urina di una qualche bestia, d’un qualche tipo di bestia si intende.
“Increscioso!”
“I tempi, che tempi! Senta un po’, ma lei di nome come fa?”
“Arimondi! Cavalier Arimondi! Non mi sono presentato ancora?, ciò è disdicevole!”
“No, in verità, se non sono indiscreto, le chiedevo a proposito del suo nome di battesimo.”
“Io? Il nome… Oh, certo! Giancarlo!”
“Cavalier Giancarlo Arimondi?”
“Sì!, per servirla! Mi conosce, eh?! Tutti mi conoscono.”
“Residente in via della Luna ha detto?”
“Già, bella zona residenziale, poco distante…”
“Al numero civico corrispondente al tredici?”
“Eh già!”
“V’è una fontana grande, con un obelisco a centro che sormonta tre leoni, proprio dinanzi al semicerchio della fabbrica abitativa? Dalla bocca dei leoni fuoriesce l’acqua…”
“Esatto, esatto! Ma lei, quindi, abita nel quartiere? Certo, se fosse vino, piuttosto che acqua, quei leoni sarebbero ben più apprezzati, che Ercole se li pigli!”
“In vero debbo dirle che abito proprio nel suo stesso stabile: è giusto poter asserire, ancora, che mi lusingo di quietarmi proprio presso il tredici, proprio…”
“Mi scusi, non vorrei sembrarle impertinente, ma lei come si chiama?”
“Arimondi!”
“Giancarlo?”
“Erminio…”
“Ma guarda, come mio padre…”
“Pure mio nonno, in effetti…”
I due si guardarono, malfidenti, improvvisamente ostili. Poi, la luce del palesamento li rischiarò ambedue in volto:
“Ma la sua faccia ora, sotto il lampione, lei mi perdoni, somiglia proprio a quella di mio padre.”
“Ha detto che abita al tredici?”
“Certamente, di via della Luna!”
“Arimondi allora? E suo padre come si chiama?”
“Giancarlo!”
“Come me, proprio come me, dunque!”, esclamò con gioia uno, e poi aggiunse “Ma sa che ho un figlio e che in famiglia siamo usi nomarlo Erminio, tra le altre cose?!”
Si fece silenzio, un gallo cantò lungi, dietro le colline del Tenimento.
Con qualche cautela, uno propose:
“Padre, ma siete voi dunque?”
“Figliolo diletto!”, l’altro accolse.
E furono abbracci e lacrime di felicità, poiché i due non si vedevano almeno dal mezzogiorno, a pranzo. Nel frattempo aveva smesso di nevicare e qualche stella faceva timidamente capolino tra le fumose nebulosità della notte glaciale. Il più giovane degli Arimondi si guardò attorno, vide l’ombra della Torre tondeggiante, di fondazione angioina, l’orologio rintoccava, ma chissà per cosa, un qualche imprecisato orario del giorno nascente, e un cane abbaiava mestamente. Gli venne di far pipì e chiese permesso al padre di potersi allontanare per l’incombenza, al fin di evacuare. Raccomandò, il padre, di non emulare la bestia che s’era servita del lampione. Rassicurò, il figlio, che si sarebbe approssimato pudicamente al grande noce sul ciglio del torrente. Glielo indicò, pure, in mezzo alle nebbiose esalazioni. Il padre, ancora, si premurò di ravvivargli l’attenzione, ritenuta necessaria affinché non cadesse dabbasso e non fosse travolto dalle acque ghiacciate. Così, dopo essersi abbracciati nuovamente, il figlio andò a fare la pipì. Non senza un sentimento di beatitudine il giovane si lasciò riscaldare in volto dal vapore olezzante che anch’esso esalava dal suo basso. Si sentì soddisfatto e improvvisamente leggero, persino più lucido. Terminata l’operazione si voltò e mosse piede per andare incontro al compagno di bevute e di passeggiata. Ma quale sorpresa lo colse quando non ritrovò più il volto supposto e atteso nell’uomo che stava ad aspettarlo nello stesso punto ove aveva lasciato Giancarlo Arimondi:
“Mi scusi, devo essermi disorientato. Ha per caso visto passare di qui un signore distinto, forse solo un pochino alticcio? Sa, è mio padre e non vorrei che si perdesse, con questo freddo, la neve…”
“Ma che dici, figlio mio?!”, reclamava l’altro, con finta preoccupazione rilevabile nel tono della voce.
Eh sí, poiché Erminio sentiva, avvertiva certamente una nota di sarcasmo impastarsi male con le parole sospettosamente asciutte, troppo nettate e sobrie, del suo nuovo interlocutore, e gli sembrò a tratti che nel volto dell’altro scintillasse un sardonico sorriso; era perplesso, coglieva riflessi verdastri tra le rughe profonde del volto, gli sembrò persino di percepire inimicizia. Insistette non poco con le sue rimostranze e avanzò sottili dubbi, ma alla fine dovette persuadersi che in effetti quel signore somigliava a suo padre, pur non essendogli identico. Si convinse ad andargli comunque dietro. Che altro avrebbe potuto fare? Non c’era anima via attorno, doveva essere quello, senz’altro, suo padre.

La vicenda, che ripeto mi è stata raccontata, ha un finale preoccupante, poiché pare che di Erminio ad oggi non si abbia più notizia. Sparito nel nulla della notte color di prugna, densa e piena, più che vuota, di apparenze e nient’altro. Mentre dell’altro signore, che effettivamente nelle successive ore dell’alba fece ritorno in via della Luna 13, la moglie giura che vi sia niente che possa far pensare a una somiglianza con l’Arimondi marito. Ella ha prima aggiunto che il suo Giancarlo, il noto cavaliere, sia fuggito in Napoli, con una sgualdrina da tre soldi.
Nel frattempo, il bargello, incaricato delle ricerche, ha sostenuto nei suoi verbali che il ragazzo, probabilmente, incautamente, sporgendo troppo, il piede, o avendogli trovato incauto appoggio sul ciglio sdrucciolevole del torrente, o magari, anche a causa del troppo vino, semplicemente perdendo l’equilibrio, sia finito irrimediabilmente nei torbidi vortici delle pericolose acque invernali. Una vecchia megera del posto invece è sicura che lo abbia traviato un qualche demonio notturno, magari istigato dalla malacreanza che ha condotto il giovane, poco rispettoso, a orinare sulla radice del noce. Quanto meglio sarebbe stato preferirgli il lampione! Ora ella, la vecchia tessala, si dice sicura, prestando dovuta attenzione, di sentire ancora l’eco nell’etere dello scricchiolio dei cristalli di ghiaccio che si frantumano sotto il peso delle scarpe e degli zoccoli che affondano nella soffice neve dei sentieri di campagna, solo una leggerissima vibrazione che si perde del tutto sparendo all’imbocco per una delle larghe vie della città di Dite, ma allo stesso tempo rassicura tutti asserendo che le prescrizioni dei medici inferi intrattengano per il suo meglio il giovane Erminio, con solfurei suffumigi e impacchi roventi, e forse egli non ritornerà in superficie prima d’aver fugato del tutto il raffreddore, ch’è natural conseguenza della sua ultima scorribanda notturna. Ma c’è dell’altro. Riguardo il caso di suo padre, cioè il noto cavaliere Arimondi, in passato fregiato d’encomio pubblico dal Viceré in persona, molti del circondario ritengono di dover precisare che la moglie abbia colto occasione per liberarsene una volta per tutte, e si dice pure che la stessa, qualche dì dopo, abbia fatto sapere in giro, contraddittoriamente, che il vero – o presunto – marito si trova ad esser in verità trattenuto da mesi, ma amorevolmente, in una casa di riposo in Svizzera, al fine di risolvere una insistente nevrosi depressiva. La questione, dal mio punto di vista, va posta in vero diversamente. E ho le mie ragioni: è vero che si tratta di una storiella, e chissà quanto di inventato è stato posto alluvionalmente, scientemente o meno, in mezzo alle pieghe dei fatti, ma se un fondo di verità v’è sempre in questo genere di vicende raccontate solitamente al bar, ecco che occorre prendere in considerazione l’intervento possibile, o forse necessario, di un terzo ignoto personaggio, uno che deve aver riportato e riferito tutto quel che avvenne nel percorso dall’osteria al noce, i dialoghi e tutto il resto che avvenne tra i due Arimondi. Preciso tutto ciò, perché a rigore di esperienza, non ho mai conosciuto narratori onniscienti. Alcuni amici, non senza rimediare ai mal taciuti timori panici con un sorriso forzato, a proposito di tale figura intermedia presente tra i due parenti, ipotizzano possa trattarsi proprio del traviatore menzionato dalla megera. È un vero peccato, comunque, ai fini della narrazione, che il racconto non si sia concluso con l’arrivo incolume dei due distinti signori presso lo stabile di via della Luna 13, magari provvidenzialmente ancora ignorando lo stato di parentela. Sarebbe stato grazioso il dialogo da trarne, anche per la semplice e compiacente amenità della discussione salottiera. Riesco solo ad immaginarmi la sorpresa comune e condivisibile dei due beoni alla rivelazione finale, ossia quella da riferire alla stupefacente scoperta di abitare nella stessa casa senza averlo mai potuto immaginare in principio.
Gaetano Celestre

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